Cindy Sherman, fotografa in un mondo di professionisti e artisti uomini
L'arte femminista che ha sfidato il patriarcato
Fotografe come Sherrie Levine (1954) e Cindy Sherman (1954) hanno iniziato la propria carriera artistica in un campo dominato dagli uomini. La concezione stessa del lavoro connesso alla fotografia aveva una chiave interpretativa per cui il fotografo era il “padre” della propria produzione, a sua volta considerata come “figlia” del primo1. Tutt’altra storia per le colleghe. Craig Owens - critico d’arte statunitense vissuto nella seconda metà del Novecento, attivista e femminista - sosteneva che riappropriarsi del ruolo di artista è un atto femminista2. Le donne sono l’oggetto dell’occhio del fotografo e della macchina, sia essa fotografica o da presa. Cindy Sherman è una di quelle artiste novecentesche ad essersi riappropriata del titolo e del ruolo di artista e fotografa, diventando “agente”, soggetto generatore della propria arte3.
Per comprendere la portata innovativa di Sherman, è importante conoscere il contesto storico-artistico in cui sviluppò le proprie serie fotografiche: l’era “post mediale”. Si tratta una definizione che permette di individuare una divisione tra un “prima” e un “dopo” nel rapporto tra l’uomo e la tecnologia, i suoi usi e le sue convenzioni4. La fotografia è comunemente ritenuta l’unico tipo di prova tangibile di fatti accaduti, poiché riesce a “impressionare” la realtà. Dalla nascita della fotografia a fine XX secolo ai decenni a venire, si è diffusa la consapevolezza che le fotografie possono essere sofisticate. Manomettere i negativi e le loro stampe, a seconda del fine di chi le vuole utilizzare, ha compromesso l’aura che la fotografia portava con sé, lo statuto di “veridicità”, di testimonianza inequivocabile di ciò che era accaduto. Per gli artisti delle post-avanguardie degli anni Sessanta del Novecento - grazie anche all’esperienza dadaista di inizio secolo - è possibile giocare con queste aspettative del pubblico, mettere in crisi ciò che sanno (o pensano di sapere) su arte e artisti, tecniche e mezzi5. È diventato difficile etichettare a quale categoria artistica appartiene ciascun artista: si tratta di fotografi, pittori, scultori, designer di interni, registi, stilisti di moda? Non è più possibile, infatti, provare a incasellare in un unica definizione ciascuno e ciascuna di loro, perché hanno intrapreso carriere eterogenee, ibride, e provengono pure da percorsi di formazione e accademici differenti. Nel caso di Sherman, può aiutare definirla “fotografa”, ma ciò non deve in alcun modo limitare la lettura del suo lavoro: non è più necessario (né tantomeno utile o possibile) attribuirle un’etichetta. É un’artista che usa il medium fotografico per realizzare forme d’arte6.
È il 1977 quando Sherman decide di prendere come soggetto per una nuova serie di fotografie una donna. Questa figura non ha un’identità precisa, ma l’intento dell’artista è di rappresentare, tramite cliché, un’ipotetica attrice hollywoodiana7. Il nome del progetto è Untitled Film Stills. Sherman compie una riflessione profonda e sfaccettata sul ruolo dei film - noti anche come “immagini in movimento” - per mezzo della fotografia - che produce, invece, immagini fisse. Questa modalità sembra stonare, invece, è essa stessa una scelta artistica ben precisa e di rottura con le convenzioni. Con questa serie, Sherman si propone di analizzare le convenzioni attribuite al medium fotografico, a quello cinematografico e al mondo del cinema. Come in quasi tutte le sue opere, è lei stessa a vestire i panni dei suoi soggetti. In questo caso, Sherman mette al centro della riflessione non solo quello di un’attrice hollywoodiana degli anni d’oro, ma anche il ruolo della donna nella società americana e delle artiste. Sherman adopera e sfrutta la camera da entrambi i lati; il suo è un lavoro di continuo trasformismo, tra chi è a caccia dell’essenza da ritrarre e chi le cerca di impersonare, chi vuole trasmettere un messaggio e chi ne è, effettivamente, il veicolo. Sherman reclama i ruoli di soggetto e regista, modella e artista.
Il periodo compreso tra gli anni Quaranta e Sessanta è caratterizzato da personaggi femminili basati su cliché. Innanzitutto, le donne non hanno una forza tale da contribuire in maniera incisiva allo sviluppo della trama; molto spesso, sono “oggetti” del desiderio amoroso del protagonista maschile. Nella Hollywood di quegli anni, la cosiddetta “era d’oro”, la donna protagonista è un personaggio secondario senza una personalità complessa, con determinate caratteristiche fisiche riconoscibili e iconiche: occhi grandi, labbra rosse, capelli biondi e ben curati nelle acconciature, un aspetto fisico e “forme” ben codificate, portamento elegante, con rarissime eccezioni. Leggendo questo elenco, vi potrebbero essere venute in mente Marylin Monroe, Liz Taylor, Grace Kelly, probabilmente non Katharine Hepburn o Bette Davis. Indipendentemente dal loro talento, le prime vennero scelte e hanno contribuito a sviluppare l’idea di diva e di icona: fonte d’ispirazione di canoni di bellezza ripresi e studiati negli anni. Il lavoro di Sherman si concentra sulla rappresentazione di questi personaggi femminili di quell’epoca, «the ingenue, the sex kitten, the hardened film-noir heroine, the sophisticate...»8.
Sherman stessa è cresciuta negli anni del secondo dopoguerra, accompagnata da film e foto delle dive dello schermo che comparivano nei poster promozionali e sulle riviste. è proprio da questo tipo di contenuto che trova l'ispirazione per Untitled Film Stills, che significa letteralmente “Fotogrammi senza titolo”. Ogni foto che compone la serie ha solo un numero che permette di distinguerle, probabilmente per veicolare questo senso di indeterminatezza: l’artista vuole rappresentare un clichè, qualcosa di riconoscibile ma che poi diviene indistinto all’interno della categoria. Sherman non ha citato direttamente nessun film o attrice esistente9. L’artista è stata, infatti, capace di scatenare nel pubblico sia un senso di familiarità con le foto e i soggetti, le ambientazioni; al tempo stesso, è possibile concedere agli spettatori la completa libertà di riconoscere le fonti d'ispirazione dell’artista. Potrebbero essere delle attrici viste su una locandina di un cinema, in una rivista di settore o femminile, o un’insieme di caratteristiche di più persone. Rebecca Schneider (docente di arti performative e teatrali alla Brown University) spiega il lavoro di Sherman come ricorso all’uso di una sorta di “specchio che distorce” (queering looking glass) per unire realtà e finzione10.
Lasciando a voi che leggete la possibilità di provare a riconoscere film, attrici, dive della Hollywood golden age, vi suggerisco un paio di foto che chi ho trovato particolarmente familiari. Si tratta delle foto #11 e #48. La prima cosa cui ho pensato è Psycho (1960), film di Alfred Hitchcock, regista maestro del brivido e dei film thriller che fanno stare in punta di poltrona per la suspance. La foto #11 ricorda molto quando Marion Crane (Janet Leigh) giunge al Bates Motel, luogo di oscure sparizioni. La donna sta stringendo un fazzoletto nella mano, mentre l’altra è sintomo di probabile frustrazione per una conversazione appena finita, o magari una chiamata o una persona che si attende con molta tensione. La protagonista sembra stonare con la stanza in ordine, il letto che non è stato usato; anche la posizione diagonale del corpo suggerisce di osservare la scena da dentro la stanza. Ricorda come quando l’occhio della macchina da presa (e, per estensione, degli spettatori) entra nell’intimo della storia dei personaggi, anche in posti solitamente non accessibili. L’arredamento della stanza mi ricorda quello di una camera d’albergo, il cui accesso è precluso al personale dell’hotel mentre è occupata dall’ospite. Tuttavia l’angolazione dello scatto suggerisce una sorta di intrusione dello sguardo del pubblico; proprio come avviene in Psycho, l’assassino che si introduce nella stanza e aggredisce Marion mentre è sotto la doccia.



Anche la #48 ha un’atmosfera altamente drammatica. La donna ha lo sguardo rivolto verso la fine di una strada che curva in un punto che nè lei nè il pubblico può scrutare. Si crea un clima di attesa (la valigia che è affianco ai suoi piedi), una strada misteriosa, le nuvole che riempiono il cielo presagendo l’arrivo di maltempo, il sole che è tramontato, o coperto, il che impedisce di avere un’idea su che momento del giorno sia.
In conclusione, credo che la figura di Cindy Sherman sia stata centrale nella riflessione e nella critica ai modelli estetici femminile promossi dalle produzioni cinematografiche dell'epoca e che la sua influenza abbia contribuito a promuovere una maggiore consapevolezza, nell'ambiente culturale, del ruolo della donna al di fuori dai canoni dei media.
A cura di Gaia Zordan
Note
1 Owens C., From Work to Frame, or Is There Life after ‘The Death of the Author’? in “Beyond recognition: representation, power, and culture”, a cura di Bryson S., Kruger B., Tillman L., Weinstock J., University of California Press, Berkeley, 1994, p. 124-125.
2 Id.
3 Id.
4 Buskirk M., The Contingent Object of Contemporary Art, Cambridge: MIT Press, 2003, p. 112.
5 Crimp D., Pictures, “October”, primavera 1979, p.75.
6 Ibidem, p. 76.
7 “The Complete «Untitled Film Stills» By Cindy Sherman” MoMA Interactive Exhibitions, consultato il 24/01/2024 (https://www.moma.org/interactives/exhibitions/1997/sherman/).
8 “The Complete «Untitled Film Stills» By Cindy Sherman”.
9 Knafo D., “Dressing Up and Other Games of Make-believe: The Function of Play in the Art of Cindy Sherman,” American Imago 53, n. 2, estate 1996, p. 147.
10 Schneider R., Remembering Feminist Remimesis: A Riddle in Three Parts, “TDR (1988-)” 58, n. 2, estate 2014, p. 26.
z .
Bibliografia
Buskirk M., The Contingent Object of Contemporary Art, Cambridge: MIT Press, 2003.
“Cindy Sherman: The Complete Untitled Film Stills Goes On View At The Museum Of Modern Art This Month” MoMA.org. Museum of Modern Art, New York. 25/02/2009. (https://assets.moma.org/documents/moma_press-release_386942.pdf?_ga=2.33187769.664303098.1654096113-466915125.1651587359/).
Crimp D., Pictures, “October”, primavera 1979, pp. 75-88.
Knafo D., “Dressing Up and Other Games of Make-believe: The Function of Play in the Art of Cindy Sherman,” American Imago 53, n. 2, estate 1996, pp. 139-164.
Owens C., From Work to Frame, or Is There Life after ‘The Death of the Author’? in “Beyond recognition: representation, power, and culture”, a cura di Bryson S., Kruger B., Tillman L., Weinstock J., University of California Press, Berkeley, 1994, pp. 122-139.
Schneider R., Remembering Feminist Remimesis: A Riddle in Three Parts, “TDR (1988-)” 58, n. 2, estate 2014, pp. 14-32.
“The Complete «Untitled Film Stills» By Cindy Sherman” MoMA Interactive Exhibitions, consultato il 24/01/2024 (https://www.moma.org/interactives/exhibitions/1997/sherman/).
Sitografia
“Cindy Sherman” MoMA.org. Museum of Modern Art, New York, consultato il 24/01/2024 (https://www.moma.org/artists/5392).